Pearl Jam Dark Matter

“Ricordarsi di essere se stessi”

La presentazione dell’album a Milano

Quando si ripresenta al pubblico una band che ha segnato un’epoca giustamente mitizzata, con una discografia magniloquente che vanta almeno quattro pietre miliari, allora le aspettative sono naturalmente alte. Soprattutto quando il gruppo in questione si chiama Pearl Jam e non è più riuscito a cavare un lavoro convincente, dall’inizio alla fine, da ormai tre album.

Neppure sommando gli episodi migliori di Backspacer (appena la metà?), Lightning Bolt (magari un paio?) e Gigaton (ma ce ne sono davvero?) ne uscirebbe qualcosa all’altezza dei loro trascorsi più amati; né, tantomeno, di quell’omonimo con l’avocado in copertina che aveva rivitalizzato la proposta della formazione e che ci aveva forse regalato l’ultima tournée in cui il complesso non è salito sul palco solo per riesumare l’ingombrante passato, ma anche per presentare dei nuovi brani che al cospetto dei loro grandi classici non sfiguravano affatto. Lo testimonia anche Immagine in Cornice, il DVD che celebra le date italiane dell’estate 2006. Ma questa è soltanto la mia opinione, per quanto spesso condivisa dalla fan base meno talebana del quintetto.

Qui non si tratta di pretendere dai propri beniamini la travolgente urgenza espressiva degli esordi, né di aspettarsi sempre lo stesso disco come se scimmiottassero se stessi pur di accontentare gli ascoltatori con ipotetici Ten pt 2 o Vs 3.0. No, grazie, per queste cose ci sono già gli AC/DC o Vasco Rossi. Non è questo il punto. Nemmeno io sono più il ragazzo che negli anni Novanta ammirava Stone Gossard e soci da sotto il palco, né oggi mi esprimo allo stesso modo di allora e non ne sento neppure il bisogno, giacché le istanze di un ultraquarantenne sono sostanzialmente differenti; se così non fosse, significherebbe che qualcosa nella maturazione di un individuo sia andata storta.

Cambiano le età e i modi di elaborare i sentimenti e le esperienze, e di converso la maniera di tradurli in musica o in qualsiasi altra espressione artistica. Quindi, di certo non si è mai rimproverato ai Pearl Jam d’invecchiare e sentire il naturale bisogno di seguire direzione diverse e più consone al lungo percorso vissuto. Nient’affatto, sarebbe da bacucchi. Gli si è rimproverato, semmai, d’invecchiare male, propinando album trascurabili e, quel che è peggio, noiosi.

Meglio smetterla con gli inediti e tornare on the road giusto per celebrare questo o quell’altro capolavoro dal loro pregevole catalogo, secondo la ricorrenza, per far vivere ai più giovani e rivivere a noi della Generazione X le atmosfere avvolgenti dei nineties.

E invece no. Un altro disco nuovo. Un’altra cocente delusione dietro l’angolo, temevo. Ne ero quasi certo e non per maldisposta prevenzione. Ma se senti Eddie Vedder, cui si deve il grosso dei magnifici input in Vitalogy e No Code, asserire convinto: “Questo è il nostro miglior lavoro finora”, allora viene spontaneo sentirsi un po’ perculati e mettersi sulla difensiva ascoltando il nuovo Dark Matter.

La title-track che lo aveva anticipato a febbraio faceva ben sperare; attese affossate un mese dopo dal trascurabile secondo singolo “Running”, forse la traccia meno riuscita del lotto.

Wreckage”, rilasciata tre giorni prima della release e con tutti i crismi per diventare un altro classico, aveva infine confermato le buone premesse sul dodicesimo album in studio del gruppo.

Qualcosa, però, ha subito disturbato le orecchie di molti ascoltatori, incluse le mie: le sonorità. Ovattate, iper-compresse… Insomma, di plastica. Scordatevi l’arioso spazio fra voce, chitarre, basso e batteria nei lavori prodotti da Brendan O’Brien, che ti danno la realistica impressione di trovarti in sala prove con la band che ti suona davanti.

Qui, al contrario, i Pearl Jam sembrano fare il verso alle produzioni urban odierne, superpompate e stracariche di frequenze medio/basse. Se mettete le cuffie per ascoltare Dark Matter noterete un magma di strumenti accatastati l’uno sull’altro, e una sezione ritmica che pare digitale e non certo figlia di Ament e Cameron, che suonano quasi irriconoscibili se non fosse per lo stile che contraddistingue i due.

È stato questo il cruccio maggiore ad avermi accompagnato nei primi ascolti di Dark Matter, che però pian piano svela una qualità di scrittura, musicale e testuale, all’altezza delle leggendarie proposte dei Pearl Jam. Il tutto sorretto da quell’intensità emotiva che li ha resi tanto cari al pubblico e che, da tre dischi a questa parte, aveva latitato alquanto.

E che dire di un Eddie Vedder finalmente calibrato su un’ugola non più anagraficamente d’oro ma di nuovo da brividi? E di un Mike McCready protagonista strumentale di questa raccolta, libero dalle sterili e ripetitive sciorinate hendrixiane e lanciato a rotta di colla come ai bei tempi? Troppo bello per essere vero, date le mie premesse, eppure…

Con questi pensieri in testa, la sera di venerdì 19 aprile sono entrato all’Headbangers Pub di Milano per godermi in ottima compagnia la presentazione italiana del disco patrocinata da Island Records e RadioFreccia, i cui VJ hanno moderato l’incontro con la scrittrice Valeria Sgarella, invitata per discutere di un ritorno discografico tanto atteso.

Proprio la mia stimata collega, in una nostra chiacchierata informale prima di salire sul palco, mi ha offerto un’interpretazione fattuale e convincente dei (non soltanto miei) dubbi riguardo alla produzione artistica del giovane e talentuoso Andrew Watt, che ha pure contribuito alle musiche di Dark Matter, scritte collettivamente da tutta la formazione come ai bei tempi di Vs.

Condividendolo poi con tutta la platea, Valeria ha sottolineato come oggi la musica si ascolti prevalentemente da supporti che riproducono il suono in modo molto diverso da come avveniva con quelli canonici con i quali io e lei siamo cresciuti.

Gli smartphone e le app musicali di cui quasi tutti adesso ci serviamo rispondono a frequenze sonore e a standard riproduttivi che, per rendere al meglio l’esperienza dell’ascolto, hanno bisogno che le canzoni siano lavorate in studio pensando anche ai moderni supporti digitali che le diffonderanno.

Nulla di nuovo nella storia della discografia, si è sempre agito così man mano che le modalità di riproduzione musicale e i formati cambiavano: dall’acetato al vinile, passando per la musicassetta e il CD.

E se “tecnologia” non è sempre sinonimo di “progresso”, ed io ne sono fermamente convinto, allora ecco il revival del vinile per quanti non hanno digerito neppure il compact disc e trovino pertanto aberranti questi discorsi.

Ma è innegabile che ci sia da fare i conti con i nuovi modi di fruire la musica, e la produzione di Dark Matter mira a questo, giacché l’album rende al meglio anche dallo smartphone più scassato e dalle casse digitali più economiche, pur mancando di naturalezza sui supporti tradizionali. È un compromesso figlio dei tempi.

Se fate il contrario, ascoltando i primi dischi dei Pearl Jam su Spotify e dal telefonino, noterete subito che perdono d’impatto e suonino meno distinti rispetto a Dark Matter; mentre esplodono in tutto il loro audiofilo splendore dal lettore CD nella vostra autoradio o sul piatto del giradischi nell’impianto di casa: ossia i mezzi di riproduzione per i quali erano ovviamente stati pensati.

Tecnicismi a parte, il vincitore del Grammy Award come miglior produttore nel 2021 sa benissimo il fatto suo e l’ha dimostrato cooperando con colossi quali Rolling Stones, Ozzy Osbourne e Iggy Pop, per citarne qualcuno. Andrew Watt aveva anche prodotto Earthling, il terzo apprezzabile album di Eddie Vedder, diventandone stretto collaboratore.

A lui i Pearl Jam hanno riconosciuto di aver infuso ritrovato entusiasmo nella formazione, di cui il producer è fan fin da bambino, rinvigorendone la proposta con un instancabile lavoro in studio – il leggendario Shangri-La a Malibu, in California – i suoi spunti musicali e la benedizione del Re Mida Rick Rubin, che ha agito da facilitatore prima che il progetto partisse.

Siccome non credo che musicisti di straordinario livello come i Pearl Jam si siano rincitrulliti, se hanno deciso di lasciare spazio a un trentatreenne competente come Watt avranno certamente riconosciuto in lui un elemento sostanziale nel riproporsi al pubblico con questa fresca serie di canzoni.

Accanto al producer di grido c’è il polistrumentista Josh Klinghoffer, che aveva già suonato dal vivo chitarre e tastiere con i Pearl Jam e che qui ritroviamo anche in veste di co-autore nell’elegiaca “Something Special”.

Conosciuto per i trascorsi tra le fila dei Red Hot Chili Peppers, ai quali secondo me ha regalato due album coraggiosi e riusciti, è stato anche il più stretto sodale di Frusciante prima di sostituirlo per un decennio, sostenendone il talento nei dischi solisti più avvincenti dello storico chitarrista dei Peperoncini. Impressionante la sfilza di collaborazioni che Josh ha inanellato sia con artisti mainstream sia con musicisti indipendenti, prima di militare nella backing band di Vedder e di seguirlo poi nei Pearl Jam.

Concluso l’intervento di Valeria Sgarella, Dark Matter è uscito dalle casse del locale milanese nella sua interezza, traccia dopo traccia, mentre due assistenti giravano fra i tavoli per l’estrazione dei biglietti vincenti che hanno regalato alcune copie del CD e del vinile agli avventori.

I miei amici sono stati particolarmente fortunati: Mago degli Angry Alice, che mi accompagnano nei reading musicali di In Catene, la sua compagna ed Emanuele, collezionista e giramondo lungo le vie del rock, si sono accaparrati due CD e il vinile. Il sottoscritto è rimasto a bocca asciutta ma si è consolato con la selezione musicale, rigorosamente Seattle based, curata dalla stessa Valeria alla consolle.

Tornato a casa, ho trascorso i giorni seguenti con Dark Matter come colonna sonora delle mie giornate meneghine. Ascolto dopo ascolto, è un album che cresce in bellezza, caratteristica propria dei lavori più riusciti.

Se l’attacco iniziale di “Scared of Fear” mi aveva fatto temere di trovarmi al cospetto dell’ennesima canzoncina rock n’ roll in cui si era impantanata la scrittura di Vedder, l’accorato ritornello (“Una volta ridevamo, cantavamo, ballavamo, eravamo la nostra stessa scena”) e l’intensità dello special vocale (“Ho perso il mio amico? È questo che siamo diventati? Un ultimo sole al tramonto. Donerò, ma non posso arrendermi. Vivrò, non abbastanza a lungo da fermare queste voci che chiamano, tutt’intorno alla mia testa, come se tu non te ne fossi mai andato”) elevano il pezzo a vertici memorabili, sorretti da una band in stato di grazia.

Che Vedder si riferisca all’età dell’oro di cui fu protagonista è chiaro, come il riferimento al suo mentore Chris Cornell; tornano finalmente quelle tematiche profonde e pregne di vissuto che distanziarono il grunge dal rock edonistico che lo aveva preceduto.

React, Respond” si muove lungo gli stessi ispirati binari, con un Jeff Ament sugli scudi come accadrà anche più avanti; per quanto la prima strofa – pericolosamente vicina a “Superblood Wofmoon” da Gigaton – suoni di conseguenza stantia.

Won’t Tell” inizia col botto: chitarre emotive, voce perfettamente consona, testo narrativo e consolante come i migliori del frontman (“Lei posò il libro sulla scrivania, aperto alla pagina che chiedevo. Potrebbe essere quella giusta?… Nel mio sogno mi dicevi di lasciar perdere la nostalgia, e la promessa che ancora mantengo non la racconterò ad anima viva. Riesci a sentire, riesci a guarire, riesci ad avvertire il cambiamento nel mio cuore?”); si tratta di un mid-tempo molto coinvolgente, che abbraccia istantaneamente l’ascoltare e tocca le corde più profonde.

È da questo momento che ho avuto la sensazione di trovarmi finalmente al cospetto di canzoni che non sfigureranno affatto in scaletta accanto a “Jeremy” o “Immortality”. E infatti, nelle primissime date del tour nordamericano, in questi giorni Dark Matter viene proposto quasi integralmente accanto a una selezione di classici misurata sulle corde vocali ormai vintage di Eddie.

Upper Hand” si riallaccia alle ballad rarefatte e pinkfloydane del sottovalutato Binaural, pur partendo citando “Pinball Wizard” dei The Who, numi tutelari di Eddie. “Waiting for Stevie”, che prende spunto da un episodio accaduto a Vedder e legato a Stevie Wonder (che suonò l’armonica su Earthling), è già stata salutata da critica e pubblico come la top song di Dark Matter, retta da un riff iconico e vagamente orientaleggiante, scritto a quattro mani dal cantante e dal produttore e portato all’acme dal gruppo, che ha sviluppato l’idea in modo memorabile costruendo un pezzo che ricorda vagamente Yield e chiuso dall’assolo più roboante di McCready in queste nuove composizioni.

Got to Give” si regge su squisiti intarsi di acustiche ed elettriche, con un up-tempo allegro e convincente e un testo sarcastico che non cede mai allo sconforto, come l’Eddie Vedder più ispirato ci aveva insegnato fin dagli esordi e oltre, mentre i suoi amici e contemporanei perivano sotto i colpi auto-inflitti della disperazione: “Ho visto il dottore, ha detto che sto cadendo a pezzi… che avrebbe potuto sistemare tutto. Ha dovuto aprirmi. Proprio come te”.

È il momento di salutarsi nel migliore dei modi con “Setting Sun”, all’altezza del compito perché ricca degli elementi caratterizzanti di Dark Matter, l’urgenza dei bei tempi; parole profonde, tenaci e a volte dure, ma solo per scrollarsi di dosso l’apatia della rassegnazione

(“Dicono che alla fine tutto andrà bene. Se non va bene, be’, allora non è la fine… Che i tuoi giorni siano lunghi fino alla fine dei tempi, che i nostri giorni siano lunghi prima della fine dei tempi… Possiamo diventare un ultimo sole al tramonto o essere il sole alle prime luci dell’alba. Non dobbiamo svanire”);

un afflato strumentale da riempirsi l’anima, come sul finale del pezzo che conduce Eddie a uno dei topic vocali del lavoro, con Roger Daltrey sullo sfondo; Gossard che regge la baracca con riff avvolgenti; Mike che si ricorda di aver registrato Above dei Mad Season, e Ament che torna a smarcare il basso dal ruolo di mero strumento d’accompagnamento.

Cameron, stavolta, non sovraccarica i brani con quella perizia tecnica che spesso con i Pearl Jam fa rimpiangere Dave Abbruzzese e se ne mette semplicemente al servizio, come i più efficaci drummer della storia.

Non ero prevenuto, approcciandomi all’ascolto di Dark Matter, ma semplicemente e umanamente disilluso come un amico tradito nella fiducia da chi aveva condiviso con lui gli anni più belli arricchendoli di significato.

Però crescendo s’impara a perdonare, come fra questi solchi canta Eddie Vedder; soprattutto quando si tratta di bonari scivoloni lungo la strada impervia della vita, mentre ci si sforza di essere all’altezza di essa e di se stessi senza scordarsi del bagaglio che ci si porta dietro, importante ma spesso ingombrante. Magari proprio per questo, a volte, s’inciampa.

Se Vedder l’ha di certo sparata grossa salutando Dark Matter come la produzione migliore dei Pearl Jam, forse non mentiva asserendo che di album così validi il gruppo ne ha in canna un altro paio. Sarebbe un modo onorevole d’invecchiare, ma non c’è alcuna fretta. Per i tour celebrativi c’è sempre tempo.

Al momento, godiamoci la qualità insperata di quest’inatteso e lodevole ritorno. Pazienza se il sound sa di finto e non è reale come i suoi contenuti. Dal vivo questi pezzi suoneranno esattamente come i migliori Pearl Jam hanno sempre fatto: risuonando dentro di noi.

GIUSEPPE CIOTTA ©

foto – Emanuele Bianchini
Giuseppe Ciotta

Autore, traduttore e musicista, Giuseppe Ciotta si occupa di rock e letteratura da una vita. Ha iniziato presto nelle radio di provincia, passando poi dalle fanzine ai primi siti web. È stato a lungo giornalista, fra gli altri, per i quotidiani Il Sussidiario e La Sicilia, dove ha curato la rubrica Lo Scaffale recensendo centinaia di volumi e intervistando personalità della cultura e delle polit... Leggi di più

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